Fuori dalle Mura

Dicono che fuori dalle Mura ci sia una piana nera, vuota, infinita. Io so che non è così.
Da quando Ipparco si è avventurato oltre queste altissime pareti di pietra erette dai nostri antenati, il tempo è passato sul villaggio in maniera diversa.
Sì, le donne continuano a tenere per mano i bambini e a raccogliere l’acqua chinando il collo bianco sulla fonte; il vasaio modella anfore nella sua baracca di legno; nell’agorà il maestro insegna ai più piccoli la lingua e i numeri, ogni tanto parla di musica o recita versi aiutandosi con la lira; il contadino fa quello che deve nei campi e io tiro su muri, come faccio da quando mi ricordo; ogni dieci soli, poi, i cittadini si ritrovano per discutere davanti al tempio di Apollo, e a decidere è sempre la solita voce autorevole e stanca degli anziani. Tutto scorre in ordine, chiaro sotto il cielo.
Come sempre è stato. Come sempre sarà.
Però qualcosa si è incrinato, da quando lui è sparito. So che è così per tutti, e non solo per me, lo leggo sui loro visi. Dopotutto succede, per un po’, ogni volta che uno dei nostri si perde al di là… subito tra noi è come quando pochi mattoni di un muro recente sembrano cedere sotto il soffio di Borea, oscillano, oscillano — poi non più.
Senza timore, sul muretto siedono di nuovo i pastori.
Non vogliono che nulla entri da fuori nelle loro vite. Anch’io ero così, prima di andare là fuori — in parte lo sono ancora. Ma queste mani rovinate hanno costruito troppi muri per non conoscere il supremo inganno di ogni muro: non annienta l’esterno.
Il pensiero di ciò che c’è fuori dalle Mura — di ciò che potrebbe esserci: questo li inquieta. È questo che scardina lievemente la ruota del loro tempo, che fa tremare la mano al vasaio mentre accarezza l’argilla, che getta un’ombra sulle riunioni politiche, che fa sì che le donne si guardino intorno con sospetto, e con più sospetto ancora quando la sera incontrano i miei occhi duri da ubriaco, perché io riporto alla mente lui, e lui riporta alla mente ciò che c’è — che potrebbe esserci — fuori dalle Mura. Giurerei che è questo che li ossessiona.
Non la paura per la sorte di qualcuno che conoscevano.
Non la scomparsa di mio figlio.
Ma si sbagliano a dire che fuori dalle Mura c’è una piana nera o cose simili: è altro quello che ho visto quando, contro la nostra severissima legge e contro la mia stessa paura (anch’io infatti sono un cittadino, anch’io conosco le storie), le ho scalate per cercare Ipparco nella notte.
Sì, perché su questo non mentono le voci: là fuori c’è la notte, c’è sempre la notte — una notte freschissima, piena di vento. Ma non c’è nessuna piana, anzi. Dalla sommità del muro l’ho visto molto bene, nonostante l’oscurità, meglio, la penombra lunare che avvolge tutto: un bosco gigantesco steso su un dolce terreno collinare, qualche radura, bianchi corsi d’acqua come luminose strisce di calce.
Disceso, avevo sotto i piedi l’erba morbidissima che precede il bosco. Guardandomi intorno, ho sentito l’enormità di quello che stavo facendo — ma anche un’enormità del genere impallidisce in fretta davanti al pensiero del tuo unico figlio che da sette giorni non fa ritorno.
Conoscevo il rischio di restare troppo tempo là fuori. Alcuni, i pochi che erano tornati, erano tornati diversi. Urlavano parole (se si possono chiamare così) e correvano nudi per le strade, prima che la scure di Dike si abbattesse sulla loro testa. Sembravano animali.
Ho pregato a lungo che Ipparco non tornasse così — piuttosto non tornasse. Ogni attimo passato là fuori avvicinava anche me a quel destino. Mi sono messo a correre gridando il suo nome.
Dicono che Pan sia un satiro che suona il flauto, ma è venuto a me attraverso il vento. Le gambe non mi reggevano più saldamente. Né, a guardarle, mi sembravano le mie gambe. Le mie mani, grosse e rozze sotto la luna, erano quelle di un altro.
Mi pareva un incubo irreale tutto ciò che c’era fuori dalle Mura. Ma soprattutto, mi pareva un incubo irreale allo stesso identico modo, ciò che c’era dentro.
All’inizio non capivo perché lo avesse fatto, cosa avesse cercato oltre le Mura. Perché non gli erano bastati la protezione delle nostre quattro pareti, la serenità e i riti, la solennità rassicurante degli anziani, incastrare pietre e impastare la malta, le chiacchiere al mercato, le graziose ragazze del villaggio, le delusioni e le piccole vittorie, la vita di ogni greco?
(E un’ultima cosa che non potevo, non volevo spiegarmi).
Perché non gli era bastato il mio amore?
Anche se tutto vorticava e non era facile fermare le apparenze del bosco, ho visto lo stesso e ricordo (come si ricordano i sogni al mattino) alcune di quelle infinite cose.
Strane piante. I loro suoni profondi, da dentro le cortecce.
Boati, intensissimi odori di carne e vino. Musica.
Cetre scintillanti conficcate come lapidi nel terreno, oppure abbandonate tra i cespugli di alloro.
Bellissime ninfe trasparenti, e satiri che ridevano, sudati.
Luci che balenavano tra i rami e sui torrenti. Fumi.
Fiere veloci, così veloci da sfuggire a ogni nome.
Fiori di fuoco.
Mai nella vita ho visto nulla di più bello. Le nostre statue, i nostri monili, le nostre pitture non sono nulla per gli occhi: ciò che vedevo e sentivo era tutto. Ora (mentre correvo tra stagni, tronchi, prati) provavo qualcosa di diverso dal terrore che fuori dalle Mura non mi aveva mai abbandonato, qualcosa che si aggiungeva al terrore e gli stava a fianco, piccolo, potente.
Forse era quello che aveva cercato là fuori. Forse lo aveva trovato.
(Altra gente — ma questo lo avrei pensato più tardi — altri giovani erano già stati laggiù a caccia dei fiori di fuoco, e con essi dentro al petto erano rientrati di nascosto. Da essi avevano distillato le nostre statue, i nostri monili, i nostri templi, la nostra musica, la nostra poesia. Forse persino i nostri numeri. Tutti pallidi ricordi di quella selvaggia bellezza).
Ora correvo e cercavo, intimorito qui dai leoni (erano leoni?), stupito là dai fuochi (era fuoco?) che mi apparivano intorno dal nulla, come la voce di una divinità o improvvisi fantasmi di vento.
Gridavo il nome di mio figlio e le lacrime ormai mi scavavano il viso.
È stato allora. Un dio ha voluto che lo trovassi vicino ad un ruscello.
Mi sono avvicinato a passi delicati, respirando. Solo in quel luogo, come fosse protetto da un incantesimo, c’era una quiete immensa.
Il suo grande occhio nero ha incrociato il mio sguardo, e ho saputo subito tutto quello che mi importava sapere: che era proprio lui e che stava bene. Il mormorio dell’acqua stava spegnendo del tutto quel che rimaneva della mia frenesia, Pan mi abbandonava. Il mio cuore trovava la pace.
L’ho accarezzato a lungo sulla testa, mentre beveva col muso immerso nel ruscello.
Non riuscivo più a essere arrabbiato o triste per la sua fuga, né per ciò che gli era capitato. Al contrario, non l’avevo mai amato tanto, né ero mai stato tanto felice per lui.
Aveva violato le Mura per questo. Era libero.
Poco dopo ha tirato su la testa come per ascoltare bene un suono lontano, è rimasto un istante in attesa, e si è di nuovo perso nella vastità del bosco al galoppo.